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Il primo sportello antimafia di una diocesi italiana

APRIRÀ A SETTEMBRE A POTENZA IL PRIMO SPORTELLO ANTIMAFIA DI UNA DIOCESI ITALIANA. CON L’IMPRIMATUR DELLA CEI, CHE TEME INFILTRAZIONI E VUOL DARE UN SEGNALE A CHI STA IN PRIMA LINEA.

Molto spesso le insidie ruotano attorno ai soldi. «La mafia si muove in modo subdolo, ma non si tratta di mettersi a fare gli investigatori» sottolinea don Marcello Cozzi. «Dobbiamo solo evitare di cadere ingenuamente nelle trappole». «I modelli positivi esistono e sono molto diffusi» conferma don Cozzi. «Si tratta di trasformare queste buone prassi in un intervento sistematico»

Fonte: Venerdì di Repubblica del 14.06.2019 di ANdrea Gualtieri

LIBERA NOS DOMINE. IN PRIMIS DALLE MAFIE
APRIRÀ A SETTEMBRE A POTENZA IL PRIMO SPORTELLO ANTIMAFIA DI UNA DIOCESI ITALIANA. CON LIMPRIMATUR DELLA CEI, CHE TEME INFILTRAZIONI. E VUOL DARE UN SEGNALE A CHI STA IN PRIMA LINEA
Per ora è una stanza anonima, pochi metri quadri nel palazzo vescovile di Potenza. La targhetta alla porta la metteranno a settembre: Ufficio per la legalità e la dignità umana. E sarà il primo sportello antimafia in una diocesi italiana. Lo ha proposto Marcello Cozzi, prete in prima linea nel sostegno alle vittime della criminalità, ed è stato approvato dal vescovo, SalvatoreLigorio. Malabenedizione è arrivata anche dai vertici della Conferenza episcopale, che lo considerano un esperimento pilota.

A Roma stanno provando a rispolverare le parole con le quali papa Francesco auspicò una Chiesa che si impegni «dove c’è sangue versato». E magari che si schieri dalla parte giusta. Accanto allo spinoso dossier sulla pedofilia — e a quello temutissimo sui dissesti finanziari che minacciano molte curie locali — c’è infatti un altro fronte che finora è stato sottovalutato e riguarda i pasticci combinati dal clero quando si inciampa nelle trame delle cosche. Giancarlo Bregantini, quando era vescovo di Locri, ripeteva che «la mafia è talmente abile da insidiare tutti: magistrati, imprenditori, intellettuali. E anche preti». Sembrava un problema del Sud, poi si è capito che i clan — più o meno camuffati — bussano alle canoniche anche altrove.

PROIETTILI E MADONNE

Era agosto del 2015, faceva caldo e la città era quasi deserta quando persino la diocesi del Papa si accorse di essere incapace di tenere la mafia fuori dalle chiese. Erano passati 13 mesi dalla scomunica di Bergoglio ai mafiosi, pronunciata durante il viaggio in Calabria. Eppureil prete del Tuscolano che celebrò i funerali show del boss Casamonica a dieci chilometri dal Vaticano affermò che se fosse tornato indietro, quel rito lo avrebbe rifatto senza remore. E aggiunse: «Sono un parroco, non un poliziotto». Un anno dopo la sveglia è suonata anche nella Lomellina: si è scoperto che la partenza della processione di San Getulio a Gambolò, in provincia di Pavia, era stata organizzata sotto casa di un uomo arrestato per aver aiutato un latitante della ‘ndrangheta. «Un puro caso», aveva ribattuto inizialmente la diocesi di Vigevano, costretta poi a cambiare linea dopo le pressioni dei carabinieri e della prefettura.

Liberaci dalla mala, hanno via via cominciato a pregare i parroci anche da Frosinone in su. Sono diventate meno lontane le immagini di Polsi, il santuario simbolo dell’Aspromonte, attorno al quale avvenivano i summit delle cosche e dove nel 2007 la festa della Madonna della Montagna fu celebrata in un contesto blindato dopo la strage di Duisburg, con il rettore dell’epoca che in seguito è finito sotto processo per mafia e massoneria. E poi a Paternò, in Sicilia, l’altra scena emblematica dell’arroganza mafiosa, con l’effigie della santa patrona portata sotto casa di un pregiudicato del clan Santapaola e fatta inchinare mentre la banda suonava la colonna sonora del Padrino. 0 ancora Sant’Onofrio, in provincia di Vibo Valentia, dove il vescovo nel 2010 fu costretto a commissariare il rito dell’Affrontata, perché il tradizionale gesto della statua di San Giovanni – portata di corsa in paese e fatta inginocchiare davanti a quella della Vergine – veniva utilizzato dai boss per far compiere una pubblica sottomissione ai nuovi affiliati. E anche li il clero si era giustificato: «Siamo preti, mica poliziotti». Proprio in Calabria e in Sicilia i presuli locali sono intervenuti fornendo vademecum accurati sulla scelta dei padrini di battesimo e sulla vigilanza da effettuare per cerimonie funebri e tradizioni popolari.

Ma i vertici della Conferenza episcopale italiana hanno cominciato a percepire l’allarme. Anche perché le occasioni di imbarazzo continuano ad affacciarsi periodicamente. C’è stato un prete di Bari che ha fatto affiggere manifesti per annunciare una messa in suffragio di un boss della ‘ndrangheta di origini pugliesi ucciso in Canada. E nella Palermo di don Pino Puglisi – il parroco di Brancaccio assassinato dai clan, che papa Francesco ha proclamato martire epoi canonizzato – un frate carmelitano nel marzo scorso ha recitato la commemorazione per un trafficante di droga e poi ha minacciato il cronista di Repubblica reo di aver dato notizia dell’insolita preghiera. Intanto la diocesi vibonese proprio in questi giorni è tornata a far discutere di sé, perché il segretario del vescovo e il prete a cui è affidata una delle più belle chiese di Tropea rischiano il processo per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose. Si è sfiorato anche lo scontro diplomatico: la curia in una nota ufficiale è intervenuta liquidando le accuse ritenute «senza riscontro nella realtà» e affermando che «l’unica verità è che i due sacerdoti, spinti da carità cristiana, hanno inteso aiutare e venire incontro a richieste disperate». Dopo le proteste della Procura, l’autorità ecclesiastica è stata costretta a fare dietrofront e scusarsi.

Nel complesso, al di là della paura di nuovi scandali, il timore della Cei è che questo stillicidio possa offuscare il lavoro di sacerdoti e religiose impegnati in luoghi di frontiera e spesso vittime di minacce. E che i fedeli ne escano disorientati: «Ci sono migliaia di piccoli paesi o realtà periferiche dove la Chiesa è rimasta l’unica presenza e deve continuare ad essere un riferimento anche per chi non è credente», ripetono nei corridoi romani. «La mafia si muove in modo subdolo, ma non si tratta di mettersi a fare gli investigatori» sottolinea don Marcello Cozzi. «Dobbiamo solo evitare di cadere ingenuamente nelle trappole». E racconta dei 50 euro donati da un prete a una persona che gli chiedeva aiuto: «Dopo un po’ quello stesso personaggio si è presentato offrendo cinquemila euro per comprare le panche della chiesa: diceva che la fortuna era girata evoleva dare un segno della sua gratitudine». Il sacerdote ne parla con don Marcello, che gli sconsiglia di accettare e poi fa delle verifiche: «Abbiamo saputo che si trattava di un narcotrafficante, i 50 euro chiesti al prete erano solo un’esca per stabilire un contatto».

Molto spesso le insidie ruotano proprio attorno ai soldi. Ed è per questo che monsignor Francesco Oliva, successore di Bregantini nella diocesi di Locri, è arrivato a restituire una ricca donazione a un imprenditore quando si è scoperto che il suo nome era nell’elenco degli indagati in un’ inchiesta su ‘ndrangheta e appalti. «I modelli positivi esistono e sono molto diffusi» conferma don Cozzi. «Si tratta di trasformare queste buone prassi in un intervento sistematico». E spiega: «Quando alla porta bussa un povero, il prete sa di avere a disposizione procedure consolidate e strutture alle quali chiedere aiuto. Se invece arriva un imprenditore minacciato, una vittima di usura, un testimone o il familiare di un mafioso, tutto è lasciato alla sensibilità personale del parroco, che spesso si sente solo e disorientato.

Eppure da Libera alle fondazioni antiusura, la rete alla quale appoggiarsi esiste già: basta solo offrire un raccordo. E convincere i sacerdoti a farsi aiutare». Soprattutto, insiste don Marcello, deve maturare quella che definisce coscienza pastorale: «C’è chi fa confusione tra i concetti di carità e giustizia. Davanti a una persona che afferma di essersi pentita scattano troppi equivoci e si rischia di trascurare l’importanza della riparazione e dell’espiazione secondo le leggi terrene. Invece bisogna ribadire che la misericordia non può prescindere dalla giustizia: è un concetto evangelico, una sfida teologica. Ma per capirlo serve uno sforzo. Culturale».

 

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